architetto
Più ancora che nella sintesi di paesaggio urbano su cui si staglia la figura controvento della ragazza Caterina ne "La meditazione" (1994) vorrei soffermarmi brevemente sulla generalità di queste imago urbis: riferendomi in particolare, per il suo valore emblematico, a quella che da sola compone il "Paesaggio medievale" del 1990. Perché lì non si tratta di silhouette appiattita (l'architettura"di cartone" di cui parla Alison Smithson), ma di addensamento tridimensionale di volumi, che si accatastano e si avvolgono con molta più costruzione come, ad esempio, nella trasfigurazione polimorfa de "Il sogno" (1992). E la raffigurazione della senesità delle architetture è inequivocabile: la Torre del Mangia è proprio lei; e il colore degli edifici, determinato e fissato dall'encausto, è senese, pur nella sua sostanziale monocromia. Così come il colore del cielo, nero-blù, se lo ricordo bene. Né sminuiscono la veridicità della figura urbano-architettonica accenni di sfera, coppi e pilastri di marina fossilità.
C'è, al fondo della configurazione assegnata a questa Siena, un impasto di pulsioni: non una sola. Certo il desiderio di restituirne la goticità puntuta di torri: molte di più di quelle che fecero parlare Lewis Mumford, a proposito di S. Gimignano, di "puntaspilli"; certo il tentativo di fissare qualcosa che invece sfugge come i sogni: quelli della propria città, poi, così ingannevoli, dove lo spazio è uguale e diversissimo; certo la memoria della conosciuta iconografia urbana: dalle vedute cinquecentesche dei fantastici incisori, che progressivamente infittiscono il tessuto edificato rispetto alle vedute più antiche, alla veduta ottocentesca di De Fleury che stempera il sogno neogotico nella solidità verosimile delle torri ricostruite.
Cosi come non può esserci, all'origine, come madre di tutte le figurazioni, la straordinaria tavoletta trecentesca con l'assonometrica visione di una Siena di mare. Ma lo stesso encausto con le sue lucidità e il suo espressivo tecnicismo, così come, del resto, la sottesa spiralità della aggrovigliata forma urbana, fanno venire in mente l'Ernest degli anni quaranta: delle foreste incubo, delle colline ispirate, delle nozze chimiche. E' la via della psiche, su cui anche Enzo Santini gioca la sua sorte di pittore.