Adriano Madaro

Adriano Madaro

sinologo, giornalista e scrittore

ENZO SANTINI, UN TAOISTA

Santini è un dono dell’eternità della pittura al nostro presente incerto, e nella sostanza abbastanza vuoto di prospettive e di argomenti. La suggestione metafisica del paesaggio dell’anima senese sta come una certezza angolare sulle fondamenta della sua arte.

Viene in mente un suo conterraneo che ha lasciato un segno indelebile nella pittura senese del Duecento: quell’Ambrogio Lorenzetti della “città del buono e cattivo governo“ così plastica e sensuale da diventare un’icona di quel tempo, come in una visione taoista dell’esistenza, dove la migliore azione è la non-azione. Enzo Santini è a suo modo un taoista, e il suo essere senese avvalora questa mia ipotesi. La contemplazione del tempo fuori dal tempo secondo me lo ha condotto per mano obbligandolo a una non scelta: non dipingere.

Ci vuole del coraggio, dell’incoscienza o dell’arroganza, esercitare l’arte del pittore, a Siena, dopo ciò che qui è avvenuto nel Duecento, nel Trecento e nel Rinascimento. Non mi posso nemmeno immaginare cosa abbia rappresentato questo “peso“ per un uomo del nostro tempo come Santini, vissuto tra Piazza del Campo e i cento orizzonti aprichi in vista sulla città turrita. Viene alla mente la ricerca incompiuta della “città ideale”, altra visione metafisica di Piero della Francesca, nella quale riversare l’anelito alla ricerca ortogonale del destino umano dentro l’orizzonte non del paesaggio, ma dell’architettura come sublimazione di un paesaggio interiore.

Le “crete senesi” nel loro metafisico incanto attonito vengono sopraffatte dalla bellezza altrettanto “naturale” delle quinte sovrapposte delle “crete cotte”, rosse e turgide come carne palpitante e divenute mura, case, chiese, torri, campanili, strade, archi, palazzi, contrade, Siena!

Santini ci si è trovato dentro, nel mezzo, interprete predestinato, non poteva sfuggire a un coinvolgimento del genere. Lo capisco, e mi viene perfino spontaneo camminando insieme a lui nella sua Siena che a ogni passo appare come l’unico luogo dell’universo dove possono ancora nascere, crescere, diventare artisti uomini come lui, devoti cantori e allo stesso tempo caustici dissacratori - nella maniera toscana più conclamata - di una città che dopo ottocento anni celebra ancora la vittoria di Montaperti contro gli irridenti Fiorentini che se le han prese, pensano in altre occasioni ancor di più di avergliele date.

Siena è ancora tutta ghibellina nel suo spirito insieme santo e iconoclastico. Ma anche nella santità Siena deve essere poi alla fine così come Enzo Santini la rappresenta.

Con Santa Caterina Siena è fatalmente l’anti-Assisi: nulla di ciò che fu e rappresentò il Poverello, con la sua mansueta beatitudine, può essere paragonato al turbine di attivismo ”municipale” di una donna volitiva e pragmatica, penultima di ventiquattro figli di Jacopo Benincasa. Pia quanto si vuole ma con una forza politica da condurla ad Avignone a riprendersi il Papa e dopo settant’anni di latitanza papale da Roma riportare un riluttante Gregorio XI sul soglio di Pietro, accompagnandolo impavida nella traversata mediterranea non priva di pericoli.

Ebbene, Santini si è trovato al cospetto di Santa Caterina fin da bambino quando la sua piissima madre, forse un po’ incurante del macabro, lo portava come a una festa ad ammirare la testa della Santa esposta alla venerazione popolare nella chiesa di San Domenico, con accanto un altro reliquiario dove si venera anche un suo pollice. Non sono “pezzi“ granché attraenti, soprattutto la testa mummificata che un po’ di orrore e forse anche di paura li avrà ingenerati in quel bambino. Ma egli è cresciuto nella ineluttabile familiarità con quella icona e se ne è pur fatto una ragione osservando la laica indifferenza di un padre tutto preso dalla lotta politica contro il fascismo. Il contrasto fra la devozione materna e lo scetticismo paterno lo hanno portato a togliere i veli alla Santa ritrovando Caterina giovane popolana carica di freschissima sensualità, fino a denudarla per mostrare le forme erotiche che esaltano una dichiarata purezza e sacralità della carne che a me è sembrata una sorta di riscatto di quel volto devastato da una morte che dura più di seicento anni.

Per me Santini è irrimediabilmente innamorato della “sua“ Caterina, e credo che questo amore sia maturato quasi obbligato nel tentativo di trasformare quella reliquia surreale in un oggetto del desiderio forse soltanto spirituale, platonico, ma con un risvolto di umana sensualità. Caterina non è l’unico tema della sua pittura, ma è sicuramente il più forte.

Pittura, quella di Enzo Santini che, come ho già accennato, è la non pittura, bensì la straordinaria “manipolazione“ della pittura. Perché è il Maestro – ed è venuto il momento di apostrofarlo con questo sacrosanto appellativo – è ancora una volta un dono che ci viene da lontano, dalla tradizione delle sperimentazioni tecniche del passato, ma con sue personali innovazioni del presente.

Intanto c’è da dire che non dipinge, ma crea le sue opere soltanto con le mani, ovvero usando le dita come unico strumento secondo l’arte antica dell’encausto.

Risalendo alle origini egizie di questa tecnica dimenticata nei millenni, affascinato dall’alchimia celata in formule segrete e forse anche un po’ magiche, Santini si è appropriato di questa conoscenza perduta. Mescolando l’uso della cera vergine delle api, come usavano gli antichi decoratori di Tebe o di Menfi, con quello di moderni pastelli idrosolubili (meglio se di marca germanica), incidendo, graffiando, raschiando e “lucidando“ con cere e altri impiastri dei quali egli solo conosce la composizione, frutto della sua continua sperimentazione, finisce per donarci delle opere che trovo appropriato definire classiche, nel significato più intrinseco di questa parola.

Arrivo così a concludere che egli è un artista del nostro tempo che ci viene contemporaneamente donato da un tempo lontanissimo (l’Egitto dei Faraoni) e da un tempo meno remoto, il Medioevo e il Rinascimento senesi, del quale siamo ancora abbacinati per lo splendore della sua luce.