docente di Storia Medievale all’Università di Siena
Può darsi che in ogni artista (scrittore o pittore o altro) ci sia costante il desiderio di ribadire la provenienza delle sue radici. Di sicuro questi fili del profondo emergono in Santini e nel suo modo di ricordare l’appartenenza a Siena. Emergono in diverse forme: alcune palesi, altre cifrate e immediatamente riconoscibili solo da chi, con lui, ha condiviso quei luoghi della memoria.
Emergono, palesi, nelle architetture che fanno talvolta da sfondo alle sue figure ma che più spesso sono esse stesse l’oggetto primo della pittura; torri e campanili di un gotico talvolta esasperato; edifici il cui colore, allude al mattone (materiale principe di questa città); archi ogivali che si aprono alla fuga di strade e scalinate. Dietro tutto ciò, non di rado, l’esplicita immagine della Torre del Mangia o il campanile del duomo.
E, intorno, la terra di campagne inequivocabilmente senesi, con quell’ondeggiare di colline spoglie in lontananza che inevitabilmente richiamano le immagini del Lorenzetti, di Sano di Pietro o di Giovanni di Paolo; con quei cipressi che chiudono l’orizzonte, o, al contrario, si insinuano frontalmente fin sulle soglie delle abitazioni, come quegli alberi rimasti prigionieri dentro le trecentesche mura di Siena – scriveva Tozzi – entrati in città e incapaci di ritrovare la strada del ritorno.
Questa la Siena palese di Santini; ma un’altra, più segreta, più in codice le si affianca. In codice, ma non per questo meno intensamente presente.
E’ la “Siena” allusa nei blu elettrici e trasparenti del cielo che richiamano le miniature di Liberale da Verona nei codici della libreria Piccolomini; è la “Siena” citata dalle torri esagone che rinviano alle (apocrife) fortificazioni del Guidoriccio(di Simone Martini? di Duccio? di altri?), a alle luci di alte monofore e trifore. E’ la “Siena” colta nella sua caratteristica – non unica, che la definisca, ma certo una di quelle più immediatamente definitorie – della chiusura e inaccessibilità di questa città, resa nella pittura di Santini dalle vie che diventano scale, dalle postierle che sbarrano il cammino, dalle rare e strette finestre cifra di una città sospettosa e sempre sulla difensiva. Immagini che alludono – per chi non conosce questa città, e magari, nonostante tutto la ama lo stesso – alla difficoltà a “entrare” in un piccolo mondo geloso, aristocratico, arrogante ad onta del bugiardissimo “Cor Magis Tibi Sena Pandit” che campisce nella sua principale porta a nord. Ma un piccolo mondo che Santini non rinnega e che anzi rivendica come suo in quei tratti nei quali le architetture svelano l’interno di una città-corpo umano con tetti e colonne che sono costole e colonne vertebrali.
Rare le figure umane, in questa Siena di Santini, quasi che tutta la scena sia riservata alla sola di esse che ha diritto ad occuparla: Caterina Benincasa, figura dai tratti mai scindibili dalle linee delle architetture che le fanno da sfondo; resa nelle evanescenti trasparenze del Ritratto, o nella marmorea fissità che fa tutt’uno con la colonna alla quale essa appoggia ne la Meditazione, o nel vorticare delle linee – un dialogo o un mistico abbraccio – dell’incontro con il pontefice ad Avignone.
Così Santini si porta dentro Siena; come un’impronta nella sua mappa cromosomica. Che – come per tanti nati in questa città – nemmeno volendo potrebbe eliminare.