Alessandro Falassi

Alessandro Falassi

docente di Antropologia Culturale all’Università di Siena

ENZO SANTINI PROFETA IN PATRIA

Nessuno è profeta in patria. Nemmeno lui, Enzo Santini, classe 1930, artista fin dall’infanzia difficile e terribile, marcata dallo sbocciare di una vocazione artistica, con il primo aiuto del professor Leo Rossi, ma anche all’ombra dolorosa dell’esperienza del padre antifascista, non solo, perseguitato ma anche orribilmente torturato alla Casermetta al numero 9 di via Malavolti a Siena.

Ecco, io credo che di qui, da questa esperienza, derivino le orribili larve e le squinternate anatomie che spesso appaiono nelle sue opere. Queste fantasie a volte dolorosamente allucinate interpretano la faccia oscura dell’esistenza per dare forma agli incubi sacri e profani a Siena, Civitas Virginis ma anche Civitas Veneris è un luogo dell’anima dove si aggirano demoni e per chi le sa vedere anche quelle orribili larve che tormentarono Caterina da Siena. Certo gli addetti ai lavori conoscevano dagli inizi il lavoro e la carriera di Santini. Basterà ricordare la sua partecipazione per tre volte (1986-1988-1991) al Salon des Independents a Parigi, al Grand Palais, luogo leggendario e leggendaria rassegna che cominciò con gli Impressionisti ad illuminare la cultura europea.

Ma il grande pubblico cittadino lo ha scoperto per il palio del luglio 1992 (ultimo palio vinto in carriera dal celebre fantino “Aceto” per l’Aquila), commessa saggia del Comune di Siena, che è troppo criticato da una sorta di gossip da bassa corte ad ogni scelta, su ogni pittore, e sia per i prescelti che per gli esclusi.

Enzo Santini produsse un drappellone essenziale, falsamente tradizionale, che si basava su un campo iconologico ristretto a tre elementi: sotto il cielo di Siena, la terra, la vergine e il cavallo.

Peccato che le parole che in quell’occasione ci scambiammo con Omar Calabrese in una nottata memorabile, in viaggio per Parigi, siano andate perdute, ma il senso era questo: notavamo la forza senza incertezze del sistema di segni di Santini volto solo a rappresentare l’essenziale: della serenità dall’interno, con forza e senza distanza. Ognuno degli elementi era amabilmente, incredibilmente, decisamente stravolto. Giocavamo col latino: “Omne Trinum Tertium non datur” invece a Siena “Tertium datur”. Eccola qui la trinità senese sotto il suo cielo, che non era solo nero e blu, anche azzurro e cobalto e lapislazzulo, copiato da quello cristallino e splendente delle opere realizzate da sempre con la tecnica antichissima dell’encausto, appresa e praticata da Santini, a dare alle sue opere una patina e una luminescenza metastorica e metafisica. Dai suoi cieli, non dal Giotto di Assisi viene quello del Palio. La Madonna - apriti cielo, spalancati terra – era sorprendentemente asiatica, dolce e metafisica icona universalistica, ecumenico segno di bellezza ideale, dalla composta fissità. Una Madonna per tutto il mondo, quella di Santini, inedita e misteriosa variazione di una cara iconografia senza fine, non importata nell’iconografia del palio, ma prodotta dal midollo senese della tradizione.

Nel drappellone alla Madonna si lega in un attorto e torbido fascione pittorico, il cavallo drammaticamente e orribilmente stravolto, in un definitivo dramma di trionfo e sconfitta, paradiso e inferno, esaltazione e dannazione. E’ un cavallo che freme e nitrisce, scalpita e cade, cade e si impenna – nella corsa sarà il segno irrevocabile e terribile del destino, di una corsa da tutto o niente.

Ai piedi del vortice che avvolge e stravolge Maria e il cavallo c’è un’architettura monocroma come uscita da una miniera di salgemma o una cava di travertino, un’architettura che mostra nella loro sempiterna solidità gli stemmi di Contrade e istituzioni; il pittore a dar loro la vita li ha appena segnati di rosso sanguigno. E c’è infine la rappresentazione della città, nuda senza abitanti, nella sua essenzialità architettonica, come metafisica fu la Parigi di Dubuffet. E’ una Siena siderale, gotica e riconoscibile nella sua iconicità e icasticità dei segni: la porta, la torre, la cupola, la croce, l’arco, l’altana. Si ricordano le grandi fonti pittoriche, quali la Siena di Duccio e quella di Sano di Pietro, ma la Siena di Santini è più inquietante e spoglia nella crudezza e nella memoria. Questa icona di Siena torna spesso molte volte nell’opera di Santini. Ce n’è una di grandi dimensioni che troneggia nello spazio dell’Enoteca I Terzi, ristorante destinato forse ad un futuro da Via Margutta senese. Questa Siena, per niente grembo rassicurante, si oppone nell’iconografia mediterranea di Santini a una Avignone analogamente stilizzata e riconoscibilissima attraverso pochi segni specie le guglie puntute del Palais des Papes.

Il Mediterraneo è lo scenario fisico e metafisico del grande ciclo di dipinti dedicato a Santa Caterina, il più impressionante lavoro del nostro pittore. Il ciclo cateriniano di Enzo Santini ha fatto un lungo giro del mondo senza soste per strade per me imperscrutabili fin dal suo completamento che lo hanno portato da Siena dal 1994 al 2012 in un percorso che val la pena ricordare: Varsavia, Grenoble, San Luis Obispo, San Francisco, New York, Avignone, Firenze, Toronto, Chiusdino, Bruxelles, Plaisance, Wetzlar, Treviso, Venezia, Pienza. Ciò è dovuto certo al valore, alla tenacia, alla diplomazia, alle public relations personali ed al curriculum artistico di Santini, ma forse anche, senza invocare misteriose regie o predestinazioni, c’è da dire che Santini ha toccato una corda speciale nella rappresentazione della vicenda sovraumana, terrestre e celeste, astratta e concreta di Santa Caterina. Il suo viaggio e il suo messaggio universale sono realizzati nei dodici luminosi encausti da Enzo Santini. Tra tutti restano indimenticabili, a mio avviso, la“meditazione”, il “ritorno da Avignone”, la“contemplazione della croce”.

La“meditazione” mostra la santa bella e sensuale, serena seppure alla colonna come Cristo. Spira una brezza metafisica che ci porta in una notte ove il tempo è sospeso mentre lei contempla gli “arcana dei” che le fu dato di vedere, il mondo di là.Nel“ritorno da Avignone”,dipinto a tinte forti, la Santa invece carnalmente prende d’impeto, d’assalto quasi, Gregorio XI papa incerto e imbelle, e lo spinge al ritorno a Roma della sede papale, all’inevitabile gran passo, che per la volontà di Caterina era imprescindibile e sacrosanto.La“contemplazione della croce”evoca e coglie il Mediterraneo, come fece Picasso ad Antibes, nella sua forma chiara e nella sua luce abbagliante.

Resta da dire dei ritratti di grandi personaggi che Santini affronta come in un duello, un confronto forte e diretto con la contemporaneità. Talvolta di inaspettata aggressività. Basta menzionare tra tutti quelli di Mel Gibson, di Barak Obama, di Mario Luzi. Sono teste parlanti, subito scrutate, interpretate e quasi svuotate chirurgicamente del loro spirito vitale, come antiche maschere mortuarie. La loro psiche è messa a nudo con una risolutezza inaspettata in un pittore dai modi senesi, pacati e civili. Ma è noto, ed è detto antico, che i senesi arrivano prima all’osso che alla carne.

Una straordinaria avventura artistica, mai realizzata fino ad oggi, degna del Mangia d’oro.

IL CICLO DELLO SGUARDO

I devoti di S. Caterina sono adusi da sempre a contemplare la vita, morte e miracoli non per immagini singole, ma per cicli pittorici, da quello quattrocentesco di Giovanni di Paolo e a quello del Sodoma fino a quello dipinto un secolo fa da Alessandro Franchi nella casa della Santa, attraverso gli altri costituitisi nei secoli nell'Oratorio dell'Oca, nel cucinone dei Benincasa, nella Chiesa del Crocifisso, nelle Cappelle delle Volte di San Domenico. Tutti questi cicli mostrano una sostanziale disomogeneità - anche quelli dipinti da un solo pittore. Perché è impossibile ridurre a una singola icona, a un singolo terna, a una singola tonalità rappresentativa la "doppia esperienza di Caterina Benincasa" come la definì il suo più grande storico, Raymond Fawtier. Caterina fu infatti partecipe fortissima ed appassionata ("la mia natura è il fuoco") della storia politica, sociale, religiosa, e persino militare del suo tempo, nel quale si mosse con una logica tutta sua e una determinazione visionaria che lasciano sbigottiti. Perché il suo sguardo era altrove, fisso al di là delle cose terrene, fisso sulla divinità o sull'eternità. Quando, controvoglia, lo rivolgeva alle cose terrene, le guardava con "l'occhio dell'intelletto" per scrutarne non l'aspetto esteriore ma l'essenza metafisica, la verità al di là delle apparenze.

Il ciclo di Enzo Santini - un pittore senese che già si è cimentato con l'astrazione e la ricerca dell'essenza sia nel suo "gotico siderale" che nella "metafisica mediterranea" cara a Picasso e a De Chirico - ha il pregio di renderci soprattutto questo sguardo di Caterina sempre intenso e intento, che è il vero filo conduttore di questo nuovo ciclo. Nel ritratto che apre il ciclo, Caterina è assorta nella quieta contemplazione dell'aldilà ("vidi arcana dei"), e il ritratto a occhi bassi ne risulta come una variazione sul terna proposto a fine trecento da Andrea Vanni. Nella "Meditazione" Caterina, incatenata alla colonna, come Cristo, fissa invece lo sguardo al di là delle cose terrene - più in alto secondo la logica del suo tempo che vedeva la metafisica "in su" - la contemplazione si innalza dall'armonia delle cose terrene ("terra" al suo tempo significava anche "città") a quella delle sfere celesti, dal micro a macrocosmo. Santini dipinge poi attraverso lo sguardo di Caterina sia la conturbante picassiana "Tentazione diabolica" ("Bisogna armarsi della propria sensualità" scrisse Caterina) sia la tormentata visione delle anime dannate, e la sua Siena città celeste, immersa nella luce notturna del gotico intellettuale e siderale sul quale Santini si è già cimentato più volte. Ancora una contemplazione estatica e mediterranea, la visione della croce fonte di luce - la luce del Mediterraneo (come nel Picasso di Antibes) che Caterina costeggiò nei suoi viaggi. E infine, chiusa nel contorno preciso di una grande miniatura che a molti ha fatto ricordare Liberale da Verona, il drammatico sguardo fiammeggiante che colpisce e ferisce il Papa per muoverlo al ritorno a Roma ("Siatemi uomo virile" come avrebbe detto anche alla sua debole guida spirituale). Ne "L'estasi", lo sguardo di Caterina non è accecato ma immerso nella contemplazione della divinità. Al ritorno tra le cose terrene, lo sguardo di Caterina è smarrito nel dramma fortissimo de "L'esorcismo" per spegnarsi poi ne "La morte".

Ma la luce di quello sguardo continua, e il suo riflesso va ancor oggi per il mondo, anche tramite questi lucidi encausti di Santini, destinati a un lungo giro per diversi continenti, e in chi li guarda destinati e creare altre immagini - forse qualche visione.