vice-presidente del Parlamento europeo
La tensione visionaria che sostiene il lavoro di Enzo Santini non ha cedimenti e tiene serrata in un unico e unitario discorso l’opera di un autore che ha da sempre preferito il dialogo con se stesso e con gli universi amati al facile allineamento ai gusti correnti.
C’è qualcosa di caparbio e di ascetico nel modo di intendere l’esperienza pittorica che anima i giorni di Enzo. Non sarà per caso che uno degli studi, dei laboratori prediletti sia stata una chiesuola in cima alla collinetta di Vico Alto. Siena si scorge in lontananza: una città miraggio.
In effetti uno dei filoni d’ispirazione più sviluppati nelle opere ricomprese nel vasto ciclo cateriniano – che il Consolato generale d’Italia a Toronto ospita nel prestigioso Columbus Centre per poi essere trasferito alla Julian A. Mec Phee Californian University Unione Gallerie – è appunto quello della città fantastica, della “città invisibile”, per usare una celebre definizione di Italo Calvino. Candide architetture sotto cieli blu elettrici, placidamente notturni; guglie e archi gotici che fioriscono improvvisi, spazi misteriosi scanditi da una metrica che rifiuta obblighi costrittivi e referenze reali.
Quando Enzo Santini fu chiamato a dipingere il drappellone del Palio, la festa che due volte l’anno unisce e oppone la Contrade di Siena in viluppo di tesi e giocosi contrasti, interpretò il difficile tema rappresentando una Madonna assorta e esangue, stilizzata in forme orientali, consapevole dunque di una tradizione che rimonta ai secoli d’oro della pittura senese. E la città si profilava in una luce lunare: la torre assomigliava a un minareto, il silenzio la fasciava e l’abbracciava in una misura definitiva. Era ben percepibile in quella figurazione una propensione da miniatore di ponderosi gotici, l’eleganza di un timbro gotico, non notturno né tenebroso.
Nei quadri dedicati alle stazioni gloriose della vicenda di Caterina Benincasa questo estro di Enzo Santini, cioè la sua capacità di riprendere in termini creativi e colti le forme e le sigle di una rigorosa tradizione, si manifesta in sommo grado. Così nella visione dantesca di Caterina e Francesco, anime senza corporeità in volo leggero, così nel “Ritorno da Avignone”, uno dei momenti più compiuti della riflessione religiosa di Enzo. Un capolettera di codice, forse, si presta a suggerire il volume di una barca, il palazzo di Avignone si erge magico e turrito nella notte. Colpisce l’essenzialità alla quale si perviene e l’allusione alla supplica appassionata ad un turbato pontefice, la cui presenza fa tutt’uno con un abbraccio vermiglio.
La poetica del nostro artista si esplica come un mix di fedeltà a depositate forme e reinvenzione mitizzante di un epos molto mediterraneo. Infatti se il paesaggio cittadino conduce ad una secchezza tutta gotica, la rappresentazione di una vitalità duellante e cruenta si ambienta in una luce cortese e marina. Galli rivali si affrontano con risoluta crudeltà puntuti e metallici come orrende macchine da guerra. Gladiatori si sfidano sotto una luna impassibile e ironica. Tori infuriati si sfrenano in arena deserte.
Risultano evidenti le coordinate di sensibilità e cultura entro le quali si situa il mondo di Enzo Santini: che sono quelle dei suoi viaggi più frequenti, dei suoi legami durevoli e primordiali tra Provenza e Toscana, Avignone e Siena, Europa mediterranea e turrite città sicure come porti, in perenne attesa. Un’aria cortese, inscritta in una ripresa di asciutti moduli gotici, si alterna a un’indagine immaginosa di ferine tenzoni, il placido sguardo contemplativo si declina in preghiera, l’impulso della violenza si placa in conquista d’amore. Quanto basta per evocare la gioiosa discordia e la cortese eleganza di antiche civiltà che hanno affidato al dipingere la custodia di costumi e spazi, esposti oggi come non mai alla corrosione e all’assordante fragore di un’effimera modernità.
Insomma una lezione morale deriva dalla figuratività calcolata di Enzo Santini: non un messaggio retorico, si badi, ma l’invocazione nostalgica di una misura che si va perdendo.
Con il ciclo dedicato a Santa Caterina – se si preferisce un’asettica puntualità anagrafica: a Caterina di Jacopo di Benincasa – Enzo Santini propone in dodici stazioni una riflessione spregiudicata e personalissima su un’esperienza che è impossibile raccontare con i consueti concetti del nostro discorrere, con gli strumenti in auge di analisi correnti. Talvolta è preferibile ricorrere all’estro immaginifico della creatività artistica per tentar di penetrare in una scansione misteriosa di avvenimenti e stagioni che rifiutano di farsi imprigionare dentro spiegazioni o chiose sorrette da plausibile logica.
Ed ecco l’itinerario che Santini suggerisce, reinterpretando in chiave di sacra rappresentazione, per quadri esemplari, alcuni degli episodi più visitati del canone cateriniano. Con coraggio egli li sottrae all’aggraziata versione goticheggiante a lungo coltivata. E non cede neppure a edificanti bamboleggiamenti immersi in un luminoso realismo di leggenda. Enzo ha scelto di esaltare la convulsa corporeità di una donna ribelle. E ha modulato la sua opera – concepita in cinque lunghi anni di saggi e soluzioni, dal 1989 al 1994 – con le tecniche, antiche e di nuovo sorprendenti, del suo alchemico laboratorio: in primisl’encausto. Ma l’encausto di Enzo Santini deriva da una formula originale. Gli ingredienti sono pur sempre la cera vergine d’api, l’eccessivo calore e un rappreso calore. Però il suo lavoro si svolge in termini singolari: applica su una tavola la vernice bianca, quindi, dopo l’essicazione, vi passa sopra con un pennello cera calda, infine, dopo avere reso liscia la superficie raffreddata, può dipingere e la pittura vien fatta con pastelli idrosolubili, che si compenetrano con la cera ed assumono la perentorietà di quelli d’un perenne affresco. Trattenersi su questi aspetti non è indugiare su questioni preliminari o su fasi preparatorie. L’attualizzazione di procedimenti già seguiti nell’antico Egitto e carichi di stupefacenti tradizioni è parte integrante dell’opera, che muove, nei suoi contenuti, dall’intento di congiungere arcaismo e modernità, cifra mistico-estatica e indagine psicanalitica, direi assecondando la ricerca junghiana di archetipi dalle molteplici decodificazioni. Ed ecco allora il cammino che Santini squaderna con il riconoscibile impeto della sua poetica, radicata in un surrealismo possente e mediterraneo, attratta da una figuratività drammatizzante, propensa ad un dinamismo che scarnifica e essenzializza. I testi cateriniani sono, del resto, fitti di metafore fulminanti e di prorompenti allegorie, e se ne avverte la presenza al di là delle calcolate composizioni. Che rifiutano un’accezione del sacro come raccoglimento liturgico ed optano decisamente per una sacralità che desti orrore e terrore, produca meditazione, susciti interrogativi trasalimenti. Si prenda, ad esempio, il Ritorno da Avignone. L’appiglio di cronaca è evidente e non sottinteso vi è il riferimento alla turbolenta navigazione di un viaggio che fino all’ultimo il timoroso Gregorio XI aveva esitato a intraprendere. La Santa indica sicura la direzione, sospinta da un vento confortante, chiusa in una barca che ha la curvatura di una cullante, protettiva nicchia, mentre in lontananza s’accampa il massiccio Palazzo delle abbandonate discordie diplomatiche. Il clima è fiabesco. Quanto sta accadendo si intuisce per via di simboli che hanno la grafica tessitura di un’istoriata capolettera da codice miniato. Non diversa è la geometria che presiede alla Meditazione: anche in questo caso la Santa si volge verso la luce. Le architetture richiamano esplicitamente un paesaggio consueto. Siena turrita appare rosata sullo sfondo orientaleggiante: un insieme serrato di modeste case, e acuminati campanili, ed una cava cupola che ne è come l’epicentro. Davanti un quieto hortus claususe un pozzo di sorgiva acqua battesimale. La colonna, crettata, evoca una fragile stabilità, la sfera fa pensare a perfezione e compiutezza. Gli aguzzi cipressi inseriscono un naturalismo non immemore di tanta pittura senese, proprio d’un paesaggio, che in ogni momento è paesaggio dell’anima: oasi di rattratta spiritualità, lontana dalla città delle divisive fazioni. Di tanto in tanto una scalinata – uno scalone come sta scritto nel Libro della divina dottrina – conduce in alto,verso una sospirata strada di salvezza. “Rallegrisi ogni anima – cito il Librodalla discussa edizione Fiorilli del 1912 – che sente le molte molestie, perché quella è la via da giognere a questo dolce e glorioso stato”. E ancora: “Perché già ti dixi che per lo conoscimento e odio di voi e per conoscimento della mia bontà voi venivate a perfeczione”. Questa ansia di perfezione è il tema che risplende in un edenico giardino, nell’hortus clausus, appunto, della vita interiore. E come non rammentare qui i versi di Mario Luzi che parlano della vigilia d’una rotta di ritorno verso la quale Simone sta forse per salpare? “In quel punto di luce e fusione / veniva meno il tempo / e ogni frontiera / tra perdita e acquisto, / tra calcolo e dispendio. / Nondimeno: in movimento! / questo era, da chi mai? il comando”. Le figure della scenografia approntata da Enzo obbediscono a forze non dominate, sono sospinte da potenze invisibili. Con Lo sguardo, umile e cortese, intimo e sognante, ritroso e verginale, paradossalmente con gli occhi chiusi, Enzo rende omaggio al volto che di Caterina dipinse, con rapita ammirazione di discepolo, Andrea Vanni. Simile a quello di una deità indiana, assorta in una sua impenetrabile visione dell’Oltretempo, immersa in arcani mondi, ignoti a chi non sappia infrangere la barriera del fenomenico accettando d’abbandonarsi ad un “durissimo silenzio”.